
Sono convinto, anche solo per convinzione, che García Lorca sarebbe stato un ottimo regista, così come penso, anche solo per il gusto di pensare, che il granadino avrebbe aborrito qualsiasi adattamento del suo lavorare per il grande schermo. Non invano, e nonostante i meritevoli sforzi compiuti, credo sia un'eresia sostituire la macchina da presa e l'azione al carro della Barraca, o il vento della Sierra de Cazorla agli effetti speciali. La bellezza in García Lorca è animale, amara come la vita, dura come la morte, fredda e calda, a seconda delle circostanze, come le lune ei loro esperti. “Le tue lacrime sono lacrime dagli occhi; i miei verranno quando sarò solo e usciranno dalla pianta dei miei piedi. Chi interpreta un testo come questo non può ripetere meccanicamente una scena finché i monelli della meccanica non danno la consegna per sempre. Quel testo respira la vita ed è scritto per essere trasudato di fronte alle stesse persone che rappresenta. Xirgú in scatola, no. Xirgu scatenato, al riparo dalla polvere la strada. In qualsiasi caso, che assume l'impossibile funzione di catturare in un film l'universo simbolico di Lorca, la dialettica poetica della tragedia popolare, ha un merito indiscutibile. E riconosco l'audacia nella compagnia. Nel 1987 Camus ci ha provato con “La Casa de Bernarda Alba” e recentemente una magnifica regista aragonese, Paula Ortiz, ha fatto lo stesso con “La novia”, adattamento cinematografico di “Bodas de Sangre”. E deve essere una passione aragonese, che i Monegros aiutino, perché nel 1981 Carlos Saura aveva già aperto un varco, ben accompagnato al flamenco e al jondo da Gades, Hoyos e Marisol. Forse sarà un difetto seriale che ho da molti anni, ma ho sviluppato una predilezione manifesta per le attrici secondarie, che in più di un'occasione spiegano e giustificano un intero lavoro. Succede con questi due film. È possibile, per possibilità, che García Lorca si aprisse quando vedeva una scena, ma non ho dubbi, per sradicare l'incertezza, che si commuoverebbe, come autore e come spettatore, a ogni parola, a ogni gesto di Enriqueta Carballeira e Luisa Gavasa. Se Lorca contiene una verità, fisica o chimica, quella verità è nascosta in ogni dente di queste due attrici. E nella ricerca della verità di Lorca, in quella dialettica tra individuo e gruppo, che si conclude inesorabilmente con la morte, dove amore, sesso e matrimonio ruotano spettrale attorno al concetto metafisico di libertà, possiamo, per potere, trovare una lezione di matrimonio legge, perché, a quel tempo, Federico era del sindacato.
Come presupposto per cedere il passo alla lezione dei canoni canonici, è prudente contestualizzare la tragedia di Lorca, così lontana dalla tragedia greca. A Lorca, l'etica è essenzialmente fisica e l'eroe tragico rivendica la sua piena disposizione sul proprio corpo, non come ribellione contro lo status socio-politico, ma come ribellione contro il presente morale. È amore, sì, ma anche un profondo sentimento di possesso del corpo di fronte agli usi convenzionali degli imperativi della morale rampante:
“LEONARDO: (…) Andiamo nell'angolo buio / dove ti amo sempre, / dove non mi importa delle persone / o del veleno che ci lanciano. (La abbraccia forte.)
SPOSA: E io dormirò ai tuoi piedi / per conservare ciò che sogni. / Nudo, guardando il campo / (Drammatico) come se fossi una cagna, / perché è quello che sono! Che ti guardo / e la tua bellezza mi brucia.
All'epoca, il corteggiamento e il matrimonio sono due consuetudini sociali ei personaggi di Lorca cercano di superare il determinismo sociale, spinti da una passione corporea. Attrazione sessuale contro determinismo:
“SPOSA: Mia madre veniva da un posto dove c'erano molti alberi. Dalla terra ricca.
SERVO: Era così felice!
SPOSA: Ma qui è deperito.
SERVO: Destino.
FIDANZATA: Come ci consumiamo a vicenda (…)”.
Per forza si contempla come i personaggi sprigionino la loro passione, pur sapendo che questa ribellione li porterà alla morte. Ma non è una ribellione uomo/Stato, né un comportamento redentore contro le leggi politiche, perché Lorca ha spogliato la tragica dialettica della sua opera da ogni deriva istituzionale. L'individuo non affronta lo Stato, né il capo (Agamennone), né il sovrano (Creonte). Affronta, privo di ogni soluzione razionale, la propria moralità e, da quella prospettiva, i suoi personaggi diventano esseri irrazionali ma universali. Non sono cittadini, uomini dotati di diritti e libertà garantiti dagli ordinamenti giuridici. No. È il contrario. Sono esseri individuali e liberi, idealisti nel loro stesso senso, in uno stato naturale in cui non esistono leggi restrittive, ma non esistono leggi che garantiscano le vostre grida di libertà. È moralità, stupido, è moralità come la prigione:
“FIDANZATA: Un uomo con il suo cavallo sa molto e può fare molto per riuscire a spremere una ragazza bloccata in un deserto. Ma ho orgoglio. Questo è perché io caso. E mi rinchiuderò con mio marito, che devo amare sopra ogni cosa.
LEONARDO: L'orgoglio non ti gioverà. (Si avvicina)
SPOSA: Stai lontano!
LEONARDO: Stare zitti e scottarsi è la più grande punizione che possiamo infliggere a noi stessi. ? A che serviva l'orgoglio e non guardarti e lasciarti sveglio notti e notti? !Prego! È servito a darmi fuoco! Perché credi che il tempo guarisca e che i muri nascondano, e non è vero, non è vero. Quando le cose arrivano al centro, non c'è nessuno che le strappi!”.
Nella dialettica tra la libertà soggettiva e la Norma, nella sua accezione intellettuale più repressiva, sta la chiave per comprendere l'intero universo di Lorca. Lorca nelle sue opere impone un concetto impulsivo di libertà individuale apertamente contrapposto alla moralità di classe e selvaggia del tempo. Si tratta di negare non le norme giuridiche ma le norme morali, impenetrabili a ogni impulso liberatorio. Ma questa drammatica denuncia del codice morale si trasforma in una morte anticipata, perché la soluzione del conflitto finisce sempre in tragedia. Non c'è libertà senza morte, ma non c'è nemmeno motivo per il pentimento del personaggio condannato a tale risultato. È la morte della libertà, è un trionfo finale contro il morale del gruppo.
Il matrimonio è il punto d'incontro della drammaturgia di Lorca, inteso come valore di promessa attraverso il quale si raggiunge la felicità completa. Inoltre, a seconda delle circostanze, è la causa trainante della tragedia, per le restrizioni che impone ai personaggi intrappolati nella gabbia dell'istituto matrimoniale. E Lorca, sventrato, ci dà una lezione in tutto il suo lavoro sul diritto matrimoniale dell'epoca. Il matrimonio è un'emanazione della legge naturale e fa parte della radice stessa della libertà umana di contrarre un vincolo giuridico duraturo. Ma, come ogni diritto istituzionalizzato dalle leggi umane, ha dei limiti sotto forma di impedimenti. Il primo, l'impedimento al voto, previsto dai cann. 1309, 1311, 1313 e 1314 del Codice di Diritto Canonico del 1917. A questo impedimento si ispira il poema della Monaca Zingara (“sul paglierino / vorrebbe ricama/ fiori della sua fantasia"). Nonostante la suora abbia scelto un legame più alto con la divinità, molto più alto dell'amore mondano, la passione straripa come un flusso umano qual è, fino a che il suo delirio claustrale cede: “Attraverso gli occhi della monaca/due galoppano cavalieri/un ultimo e sordo rumore,/gli schiarisce la camicia”). Il secondo impedimento è l'impedimento di legamento, per il quale «coloro che durante lo stesso legittimo matrimonio hanno consumato adulterio e si sono prestati reciprocamente giuramento di matrimonio o lo hanno violato, anche solo civilmente» (can. 1075) non possono validamente contrarre matrimonio. il Codice di diritto canonico del 1917). Un soggetto così suggestivo non poteva passare inosservato a Lorca, tanto che in molte sue opere diventa il fulcro della trama. Per tutto casoPer la sua bellezza si può scegliere "La casada infiel", una poesia sull'adulterio: "perché avendo un marito/mi disse che era una ragazzina/quando il fiume se la portò via". E che l'atto fosse consumato, il poeta non lascia dubbi: "le sue cosce mi sfuggirono/come pesci sorpresi/(...)/quella notte corsi/per la migliore delle strade,/montato su una puledra di madreperla/ senza briglie e senza staffe”. C'è un terzo impedimento, che come tale non compare nel Codice di diritto canonico del 1917 ed è quello che riguarda le unioni sacramentali tra coppie dello stesso sesso. Se l'opera poetica di Lorca è un albero dagli infiniti rami di bellezza, non posso fare a meno di ricordare gli eterni versi dell'Ode a Walt Whitman, dove Lorca riconosce di non alzare "la voce contro El Niño che scrive il nome della ragazza sul cuscino, né contro il ragazzo che si veste da sposa."
Un'altra storia d'amore incompiuta, in cui il matrimonio non avviene mai, è "Dona Rosita la zitella o il linguaggio dei fiori". Rosita vive egocentrica e felice sotto la promessa di matrimonio che suo "nipote" le fa prima di partire per Tucumán. La sua vita trascorre nella fedele speranza di sposarsi, massima aspirazione della felicità di Lorca. Sta invecchiando ma continua a filare ogni giorno la sua felicità, accumulando estasiata “tovaglie di pizzo marsigliese e completi da letto ornati di guipure”. Anche il corteggiamento è un segno di felicità (“le donne senza fidanzato sono tutte povere, stracotte e arrabbiate”). Il finale è noto: il fidanzato infrange la promessa di matrimonio e sposa un'altra donna: “con la bocca piena di veleno e con una voglia smisurata di fuggire, togliersi le scarpe, riposarsi e non muoversi mai dal suo angolo”. È l'angoscia della meta frustrata, del matrimonio, della felicità irraggiungibile. Anche la promessa di matrimonio ha la sua disciplina nel canone 1017, arrivando a stabilire che la violazione della promessa non dà luogo ad alcuna azione per esigere la contrazione del matrimonio, sebbene sia possibile agire per esigere eventuali danni. Tuttavia, sfortunatamente per Doña Rosita, il matrimonio del suo fidanzato impedisce la celebrazione di un nuovo matrimonio, a causa di un impedimento ai legamenti.
Nella tragica trilogia di Federico, il culmine del mito matrimoniale si raggiunge con "Blood Wedding", che, non a caso, è l'unica opera in cui lo stesso vincolo matrimoniale compare nel titolo del dramma. Formalizzato il matrimonio tra lo sposo e la sposa, alla presenza delle rispettive famiglie, provvedendo così al mutuo consenso davanti a un ministro della Chiesa cattolica, nello stesso giorno e non consumato il vincolo, la sposa fuggì con Leonardo, uomo sposato. Il finale è noto, “un incrocio di coltelli” e la morte dei due uomini, e “lascia brina sulle ferite della povera donna avvizzita…”. Simbolicamente, il matrimonio è il fine raggiungibile per soddisfare la piena felicità e, ancora una volta, prevale la tragedia. Il matrimonio celebrato tra lo sposo e la sposa è un matrimonio valido, è un matrimonio temporaneo ma non consumato (canone 1015 del Codice di diritto canonico del 1917). Il canone 1118 prevede che il matrimonio canonico «non può essere sciolto da alcuna potestà umana né per alcuna causa diversa dalla morte», purché siano soddisfatte le due condizioni: ratificato e consumato. Il matrimonio contratto, quindi, dallo sposo e dalla sposa avrebbe potuto essere sciolto per dispensa se vi fosse stata giusta causa da parte della Sede Apostolica.
García Lorca aspirava e respirava felicità e, a modo suo, ha trasformato il matrimonio in un obiettivo, irraggiungibile per se stesso. Era sesso, era bugie d'amore, ma anche un profondo senso di libertà di sposarsi volontariamente, al di sopra di ogni barriera e impedimento sociale. Ne "La casa de Bernarda Alba" è María Josefa, che a ottant'anni si veste da sposa e grida: "Voglio uscire di qui! Sposarsi in riva al mare, in riva al mare!” Il matrimonio rappresenta la ricerca della felicità e quando non è possibile raggiungerla tutto smette di avere senso e sopraggiunge la morte. Come i versi del poeta: "tra due lunghe file di pugnali, lungo amore, lunga morte, lungo fuoco".